PSICOLOGIA DELL’INVIDIA: UN’EMOZIONE INCONFESSABILE
Un proverbio popolare ci ricorda che se l’invidia fosse febbre, tutto il mondo ne avrebbe. Come a dire che l’invidia è un’emozione, o forse meglio un sentimento, che ha una sua bella diffusione e molti followers, anche se nascosti. Ma se è febbre può essere sintomo di qualcosa che non va dentro di noi, che va riconosciuto e curato.
L’invidia è un’emozione vissuta in segreto perché nasce da un desiderio “indicibile”, “inconfessabile”: avere ciò che un’altra persona ha, costi quel che costi, anche con mezzi poco leciti e per nulla “morali”. E l’invidioso usa varie strategie per difendersi da questo sentimento, sia di fronte agli altri che di fronte a se stesso, negando la propria inferiorità o ammettendo il proprio “mal-animo” ma vestendolo di un giusto risentimento, o trasformandolo nel suo contrario. Spesso l’invidia si maschera dietro atteggiamenti benevoli.
L’etimologia dell’invidia la dice lunga sul suo significato: deriva dal latino “in-videre”, che non è tanto un non vedere quanto un “vedere male”, uno sguardo che esprime la “male-volenza”, il voler male a una persona e volere il suo male. Alla base dell’invidia c’è un confronto di potere e di valore con le ricchezze dell’altra persona. È un confronto che fa male perché è a proprio svantaggio e fa sentire inferiori. Invidia, mancanza di potere, bassa autostima e senso di inferiorità sono parenti stretti.
L’invidia è un’emozione universale. Anche se qualcuno è più incline di altri. Un elemento decisivo è la “vicinanza” tra l’invidioso e l’invidiato, la “somiglianza” di desideri, aspirazioni, capacità e risorse. La prossimità che apre all’amore e alla compassione può stuzzicare sentimenti meno nobili. Può essere anche “una prossimità a distanza” come nel mondo virtuale. La vicinanza di cui si tratta è un tipo di affinità che porta a pensare che avrei potuto essere io il fortunato, se le circostanze fossero state diverse. Ma questo può suonare anche come un rimprovero perché se non è successo può venire il sospetto che ci sia qualcosa di sbagliato in noi.
Gelosia e invidia vanno spesso a braccetto. Hanno dei punti di contatto ma anche delle differenze. Valentina D’Urso, un’esperta di psicologia delle emozioni, ha inventato la parola gelinvidia (un neo-logismo) perché è convinta che gelosia e invidia abbiano strutture psicologiche specifiche ma siano anche legate da un nucleo comune di natura emotiva, cognitiva e sociale. Esiste, cioè, tra le due una parziale sovrapposizione.
Schematicamente si può dire che la gelosia è la paura di perdere ciò che si possiede (un rapporto tra tre persone, l’amante che teme di perdere l’amore della persona amata per la presenza di un rivale in amore), mentre l’invidia è il desiderio di possedere ciò che non si ha (un rapporto a due tra l’invidioso e l’invidiato per ciò che l’invidiato possiede). Sono due emozioni che a volte sembrano due facce della stessa medaglia, altre volte sono ben distinguibili l’una dall’altra.
Un tratto distintivo del senso di inferiorità dell’invidioso è il senso di impotenza e di sfiducia sulla possibilità di superare il divario tra sé e la persona invidiata. È prigioniero di aspettative deluse. La reazione vira verso l’ostilità. Spesso è un’ostilità passiva e depressa, nascosta, inibita o camuffata per senso di colpa, per paura di ritorsioni o altro. A volte è lo stesso invidiato che, consapevolmente o meno, “stuzzica” l’invidia dell’altro.
Quando si confronta “svantaggiosamente” con l’altro e constata la propria inferiorità, l’invidioso comincia a porsi una tacita domanda: perché lui sì e io no? La sua attenzione può concentrarsi su se stesso per trovare la causa della propria inferiorità e, se non ne vede una via d’uscita e di miglioramento, si deprime o si sente, addirittura, un fallito. L’altra strada si concentra sull’invidiato attribuendo a lui le cause della propria inferiorità. E se non riesce a cambiare la situazione può avere una reazione di malanimo versa la causa della sua sofferenza. I due percorsi mentali possono portare a risposte distinte: se ritengo che la causa dell’inferiorità sono io, “me la prendo con me stesso”, mentre se ritengo che sia lui, “me la prendo con lui. L’invidioso orienta preferibilmente la sua attenzione all’esterno. Il malanimo può portare alla denigrazione e fino alla “mal-dicenza” più calunniosa, passando per il pettegolezzo allusivo, l’insinuazione di sospetti o la comunicazione di “dicerie” sulla cui veridicità l’invidioso non si assume alcuna responsabilità. Un altro modo è la distruzione o il danneggiamento del bene invidiato, che si può manifestare con atti vandalici sui beni dell’altro o direttamente sulla persona del rivale.
Sono vari i tipi di invidia che può essere distinta a seconda dell’oggetto cui si rivolge. Possiamo essere invidiosi per quello che l’altro ha, e noi non abbiamo, o per quello che l’altro è, e noi non siamo. C’è anche l’invidia virtuale che nasce nel mondo dei social network. Ciò che vediamo nel mondo virtuale stuzzica il nostro desiderio di avere ciò che vediamo e di essere come coloro che vediamo. Ci illudiamo di poter avere anche quello che non possiamo avere e di poter essere quello che non posiamo essere.
Nell’incontro e confronto con l’altro – sia nella prossimità fisica che in quella virtuale – invece che invidiare le differenze possiamo partire proprio da queste differenze per coglierne le “differenti” ricchezze e le possibili collaborazioni. Ma questo non è il terreno dell’invidia ma dell’amore.
Luciano Sandrin
(da: Luciano Sandrin, Invidioso io? Un’emozione inconfessabile, Editoriale Romani, Savona 2020)