LEGGO IL TESTO
Dal vangelo secondo Luca 14,25-33
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Liturgia della Parola: http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20220911.shtml
MI LASCIO ACCOMPAGNARE NELLA MEDITAZIONE
Nella liturgia della parola di questa domenica, XXIV del Tempo ordinario, ci colpisce il mistero della traiettoria della pecora che sprofonda in smarrimento, della moneta che si nasconde anche a se stessa, del figlio minore che lascia la casa, del figlio maggiore che rifiuta l’amore del Padre.
Sono i momenti segreti, questi, presenti nella pagina evangelica di oggi, strade nascoste, voragini esistenziali, spazi sottratti alla descrizione: il pastore, la donna e il padre devono fare i conti con un vuoto, con un non sapere. Occorre mettersi a cercare, senza sapere dove, oppure aspettare sperando che il figlio ricordi e forse ritorni.
Carissimi amici, non ci può essere fede senza questo momento di perdita. La fede è per gli smarriti. Per questo Cristo mangia con loro, si accosta a loro. Lascia i novantanove giusti per andare in cerca all’uomo smarrito.
Ma che lo smarrimento sia reale… Fino a quel momento possiamo parlare di Dio, a dire anche cose sensate su Dio, a parlare di buon pastore come ne parlerebbe una pecora nel recinto, incensare eccessive bontà, toccare i cuori con una misericordia dolce ma ignara di cosa significhi la paura di aver dilapidato la vita, parlare di perdono come ne parlerebbe uno ignaro al perdono.
Si può parlare di Dio dicendo cose bellissime e giuste, accarezzando i cuori, si può fare anche del bene. Ma quando franiamo nello smarrimento le cose cambiano. Io cambio. Ma devi dare nome a tutto questo, concretezza, verità. Occorre rientrare in se stessi e accettare questa condizione di smarrimento, che appartiene a tutti. Smarrirsi e non accettarlo è quanto di peggio possa accadere a noi e a chi ci sta accanto.
Non accettare il fallimento, non vedere che con il nostro comportamento facciamo soffrire, non piangere per le persone che abbiamo usato, tradito, dimenticato… questo è la menzogna della fede… pura poesia o meglio fantasia.
La menzogna della fede è smarrirsi dentro i nostri deliri di onnipotenza e blindare il cuore, anestetizzarlo, non permettere a niente e nessuno di toccarlo.
Carissimi amici, smarrirsi invece e accettare di essere falliti, sentire che siamo parte del male, colpevoli, complici, siamo noi la pecora smarrita, la moneta, il figlio minore ingrato, il figlio maggiore intestardito.
Siamo chiamati ad accettare e di riconoscere di essere perduti. Sentire il dolore dell’umiliazione, misurare il dolore inflitto agli altri e non minimizzarlo, non credere a nessun prete che con una frettolosa assoluzione prova a metterci al riparo da noi stessi.
Fermarsi invece e iniziare ad uscire dalla retorica della fede, del gruppo, del gregge e della comunità e dire semplicemente “io” forse sono la pecora smarrita, la moneta, il figlio minore o maggiore. Dire “io” e sapere che abbiamo un percorso di liberazione lungo e duro che ci aspetta. Dire “io” e piangere e vergognarsi e guardarsi nella nostra miseria e accorgersi che quella è già preghiera. Forse la prima della nostra vita perché ritorniamo davvero al Padre.
C’è un recinto a cui siamo chiamati a tornare ma non è quello di chi si crede giusto e impeccabile, è quello intimo, il deserto che ci portiamo dentro, lo spazio della verità. Smarrirsi è iniziare a svelarsi a se stessi, e bisogna avere il coraggio di trovare compagni di viaggio che non minimizzino, che non fingano, che non cerchino immediatamente la scorciatoia della consolazione, del rifiuto: sprofondare nel male che ci abita, chiamarlo per nome, smettere di vestire i panni dell’innocente, chiamare per nome la propria miseria e lì, solo lì, sperare di accorgersi di essere amati, nonostante tutto. Siamo degli smarriti, ma amati profondamente e realmente.
Chiediamo al Signore di distruggere il «vitello di metallo fuso» (Es 32,8) – che abbiamo incontrato nella prima lettura – dell’orgoglio, del perfezionismo, del moralismo e iniziare a varcare la porta dell’amore, della misericordia e dell’accoglienza.
ESERCIZIO PER L’ANIMA
Qual è l’orizzonte su cui vorrei sentirmi perdonato?
Quale nebbia ho visto essere diradata dalla luce del Signore?
Su quale strada scelgo di fare il primo passo verso casa oggi?
PREGHIERA
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;
un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.
Salmo 50